Quando nel 2001 Barry Sharpless introdusse il concetto di Click Chemistry probabilmente non si sarebbe mai sognato di vederla applicata in una reazione che avviene all’interno di un sistema biologico. Eppure è quello che hanno fatto i ricercatori guidati da Xiaogang Qu al Changchun Institute of Applied Chemistry in Cina, utilizzando i depositi di rame tipici della malattia di Alzheimer per catalizzare una reazione chimica da sfruttare per sintetizzare in loco una molecola che serve proprio a rimuovere i depositi di rame!
Confusi? Facciamo un passo indietro!
Rame e Alzheimer
Il morbo di Alzheimer è una malattia abbastanza comune nella popolazione over sessantacinque – solo in Italia colpisce 492 000 persone, 47 milioni nel mondo – ed è caratterizzata da un progressivo e irreversibile deterioramento della memoria e di tutte le funzioni cognitive. La sua causa primaria è ancora ignota, ma è noto che la malattia è associata, tra le altre cose, alla presenza nel cervello delle placche amiloidi, ovvero dei depositi anormali costituiti da detriti cellulari e da una proteina, la proteina beta-amiloide appunto.
Recenti studi hanno mostrato anche dei cambiamenti significativi nella concentrazione di rame, a seguito di cambiamenti nel metabolismo di questo metallo durante la malattia e per l’alta affinità nei suoi confronti da parte della proteina amiloide, che lo può legare a sé.
Il cervello contiene normalmente il 7% di tutto il rame presente nel corpo, in quanto quest’ultimo è parte di alcuni enzimi necessari per tenere sotto controllo la formazione di radicali liberi, ma nei malati di Alzheimer si osserva che ci sono delle zone dell’encefalo nelle quali la sua concentrazione è cinque volte maggiore rispetto ai tessuti sani, mentre nelle zone limitrofe a questi accumuli la sua concentrazione è pericolosamente bassa.
Le evidenze scientifiche al momento sembrano indicare che il rame favorisca l’aggregazione della proteina amiloide per formare le placche, ed è quindi possibile che andare ad attaccare questi accumuli possa aiutare a contenere il progredire della malattia.
Click!
Noi chimici utilizziamo spesso i sali di rame (come in genere molti composti dei metalli di transizione) per catalizzare un vasto numero di reazioni organiche. Volendo spiegare questo concetto in maniera non troppo complessa, bisogna sapere che i metalli infatti hanno la capacità di coordinare varie molecole, ovvero legarcisi, e così facendo le possono “attivare” rendendole più prone a reagire con altre molecole. Non solo, ma possono anche coordinare due molecole diverse, che si trovano così non solo costrette a interagire tra di loro, ma a farlo secondo una geometria ben specifica.
La click chemistry è un concetto nato nel 2001 che mira a sviluppare delle reazioni nelle quali due molecole si combinano tra di loro senza formare alcun prodotto di scarto, esattamente come due pezzi di un puzzle che fanno “click” quando si uniscono assieme. Questo argomento è abbondantemente approfondito in Tutta questione di chimica, il libro che ho pubblicato per Giunti, quindi se siete interessati ad approfondire l’argomento vi rimando lì.
Il gruppo di Xiaogang Qu ha sfruttato il rame presente in questi depositi per catalizzare la reazione che vedete nella figura sottostante, che porta alla sintesi di un composto terapeutico.
I reagenti vengono direttamente rilasciati in situ dopo essere stati trasportati all’interno di nanoparticelle di salice, un vettore tra i più usati nell’ambito del drug delivery intelligente. Il fatto che la reazione avvenga direttamente dove ci sono gli accumuli di rame permette alla molecola sintetizzata – che ha proprio lo scopo di sequestrare il rame, cioè di legarlo a sé rendendolo solubile e quando facilmente eliminabile dall’organismo – di non andare a colpire le cellule sane in maniera indiscriminata, dove invece il rame è necessario per sopravvivere, e permette di migliorarne la specificità e l’efficacia.
Quindi?
Sebbene la ricerca sia sicuramente originale e interessante, è ancora ben lontana dall’essere una concreta possibilità terapeutica. Questo studio preliminare è stato effettuato infatti in-vitro e su Caenorhabditis elegans, una specie di verme molto usata nella ricerca biomedica, ma dovrà essere confermato su animali più complessi e sull’uomo.
Al momento è qualcosa al livello di proof of concept, ovvero degli esperimenti di base che servono per valutare la bontà di un nuovo approccio, che in questo caso sembra certamente promettente.
Per approfondire
Articolo originale (open access)