Ricevo e pubblico questo contributo di Giovanni Falcone, studente di medicina all’Università di Salerno, scritto con l’aiuto della Prof. Viviana Izzo e revisionato dal sottoscritto.
Giuseppe Alonci
Siamo sempre più abituati a sentir parlare dell’inquinamento e degli effetti che provoca sull’ambiente. Surriscaldamento globale, scioglimento dei ghiacciai inquinamento dell’aria e delle acque: sono fenomeni di cui continuamente si dà notizia nei telegiornali e si discute in programmi di approfondimento, ma che vengono ancora percepiti dalla popolazione con troppa distanza. Ciò forse accade perché tali fenomeni vengono vissuti come “esterni” alla propria persona e non direttamente correlati alla propria salute o alla vita quotidiana. Purtroppo, questa è una percezione assolutamente errata poiché non è possibile avvelenare la terra senza avvelenare noi stessi!
Uno dei problemi più urgenti da risolvere per salvaguardare la salute dell’uomo e del pianeta riguarda sicuramente lo smaltimento delle materie plastiche. A seconda del tipo di polimero di cui sono costituite, possono essere classificate come materiali termoplastici e termoindurenti. I primi vengono ottenuti portando a fusione il materiale in vista della successiva lavorazione, mentre i termoindurenti derivano da lavorazioni non termiche che determinano l’indurimento del materiale. Le prime sono teoricamente riciclabili all’infinito, mentre le seconde non sono quasi mai riciclabili. Paradossalmente le nostre industrie produttrici, seguendo una precisa propensione dei consumatori, hanno cercato di ottenere plastiche sempre più dure e resistenti per migliorarne l’utilizzo e l’appetibilità commerciale; ciò, tuttavia, ha causato un gravissimo problema: le plastiche “dure”, una volta utilizzate, risultano difficili da riciclare e sottoporre a successivi processi lavorativi.
Circa il 40% di quello che mettiamo nel cassonetto non può essere riciclato[1] e finisce dritto in discariche e termovalorizzatori, il cui impiego è oggetto di accesi dibattiti tra sostenitori di tesi contrapposte. I termovalorizzatori hanno il grande vantaggio di garantire una migliore gestione dei rifiuti, consentendo di ricavare energia dalla combustione degli stessi. I fumi generati vengono purificati attraverso dei filtri, rispettando quelle che sono le normative europee, ciò però non significa che non inquinino. Come mostrato anche dai dati di monitoraggio effettuato su di un termovalorizzatore italiano[2], a Bologna, esso emette particolato, diossine, furani, idrocarburi policiclici aromatici e metalli, anche se al di sotto dei limiti imposti dalla legge.
Il problema principale dell’accumulo e dell’inquinamento della plastica è in buona parte dovuto alla mancanza di senso civico e di strutture adeguate al riciclo. Solo nel Mar Mediterraneo, sono 570mila le tonnellate di plastica che finiscono ogni anno in acqua, l’equivalente di 33mila bottigliette al minuto[3]. Questa plastica si degrada continuamente e rilascia microparticelle all’interno dell’oceano, che vengono ingerite dai pesci finendo direttamente sulle nostre tavole. Le microplastiche, ovvero minuscole particelle polimeriche di dimensioni pari a qualche millesimo di millimetro, non si formano non solo per degradazione dei rifiuti, ma anche a causa di molti altri processi, come un semplice lavaggio in lavatrice di indumenti sintetici. Gli impianti di trattamento delle acque sono in grado di intrappolare plastiche e frammenti di varie dimensioni, tuttavia una larga porzione di microplastiche riesce a superare questo sistema di filtraggio, giungendo in mare[4]. Queste microplastiche spesso trasportano inquinanti che interferiscono con il sistema endocrino umano, risalendo a noi attraverso la catena alimentare, dopo essere state ingerite dalla fauna marina. Se la loro presenza nei fiumi, negli oceani, sul fondo dei laghi e nelle regioni polari è ben documentata, poco è noto sulla presenza e sui pattern di diffusione delle microplastiche a livello atmosferico. Analisi ambientali condotte in alcune regioni francesi[5] hanno mostrato in varie località la presenza di microplastiche trasportate dall’aria, con una media giornaliera di 365 per metro quadrato e con un pattern di deposizione influenzato dagli eventi atmosferici. Queste particelle, una volta inalate, possono interferire con il nostro sistema respiratorio.
Ogni anno, stima l’OMS, 7 milioni di persone muoiono a causa dell’inquinamento atmosferico[6]. Secondo l’OMS, circa il 90% delle persone nel mondo respira aria inquinata. La cosa più letale per l’uomo è proprio la presenza nell’aria di microparticelle che penetrano in profondità nell’apparato respiratorio. In questo caso non parliamo di microplastiche ma, in larga misura, di particelle dovute all’utilizzo dei combustibili fossili. Sebbene la produzione di particolato, cioè particelle solide o liquide, sospese in aria e di diametro inferiore a 500 µm, sia anche un fenomeno naturale, dovuto ad esempio agli incendi o a pollini e spore, il problema nasce da un eccesso di quest’ultimo a causa dell’attività umana, come ad esempio l’emissione dei motori a combustione interna o dal fumo. Le particelle occludono il passaggio dell’aria a livello alveolare aumentando oltremodo il rischio di malattie respiratorie, problemi cardiovascolari, ictus e cancro ai polmoni. La IARC (International Agency for Research on Cancer) ha classificato i prodotti dell’inquinamento atmosferico: outdoor e particolato fine, come agenti cancerogeni per l’uomo per i quali non può essere identificata una soglia priva di effetti. L’Italia è al primo posto per morti premature attribuibili ai livelli di PM 2.5, Ozono e NO2, con ben 91.050 casi nel 2013. Una delle aree più inquinate del Belpaese risulta essere proprio la Pianura Padana![7]
L’effetto dell’inquinamento non si limita, tuttavia, all’aria che respiriamo ma si ripercuote anche su ciò che mangiamo. La plastica che finisce negli oceani può entrare nella catena alimentare e arrivare poi direttamente sulle nostre tavole, dove consumiamo cibo contaminato dalle microparticelle ingerite. Secondo il rapporto di Greenpeace “Plastic in seafood”, sono almeno 170 gli organismi marini contaminati, tra i quali: tonno, pesce spada, spigola, granchi, aragoste e scampi. Per queste specie, l’ingestione avviene attraverso la bocca, mentre per le cozze, le vongole o altri molluschi, la contaminazione si determina nella fase vitale in cui questi filtrano l’acqua di cui si nutrono, senza riuscire a eliminare le microplastiche.
Diversi studi effettuati sui mitili del litorale brasiliano hanno evidenziato nel 75% dei campioni analizzati la presenza di piccoli frammenti, così come altre indagini, condotte su pesci che si nutrono di plancton nel Nord del Pacifico, hanno registrato la presenza di microplastiche nel 35% degli individui analizzati[8].
Alcune plastiche rilasciano anche importanti inquinanti ambientali, come i bisfenoli e gli ftalati, che interferiscono con il normale funzionamento della tiroide e vanno a intaccare la funzione regolatoria, che, a sua volta, si riflette sullo sviluppo scheletrico e cerebrale, sull’apparato pilifero, sui genitali e su tutto il metabolismo corporeo in generale. In questo modo l’inquinamento influenza negativamente l’intera omeostasi del nostro organismo[9].
Molto significativo è anche il dato sull’impatto che hanno le polveri sottili sulle cellule germinali, in particolare sugli spermatozoi. Diversi studi stanno dimostrando come i fattori ambientali influenzino negativamente i gameti maschili, sia in termini di numero – il livello medio della produzione spermatica dell’uomo si è ridotto del 50% rispetto a soli 30 anni fa[10] – ma anche in termini di danno al DNA di tali cellule. Lo studio EcoFoodFertility , ad esempio ha evidenziato danni al DNA spermatico più alti di oltre il 40% nei soggetti residenti nella Terra dei Fuochi rispetto a quelli residenti nell’area della Valle del Sele. Dati che fanno riflettere su come sia importante un’inversione di rotta per contrastare una situazione sempre più pericolosa, in particolare per le future generazioni.
Giovanni Falcone è nato a Salerno il 5 Ottobre del 1996 e studia Medicina e Chirurgia presso l’Università di Salerno. I suoi interessi includono la lotta all’inquinamento, la scienza in tutte le sue sfaccettature e il basket. Sogno una terra più pulita e meno inquinata per tutti.
Bibliografia
[1] Corepla, 2018. Rapporto di sostenibilità 2018.
[2] Valeria Biancolini, Marco Canè, Stefano Fornaciari, Stefano Forti 2011, Le emissioni degli inceneritori di ultima generazione, analisi dell’impianto del Frullo di Bologna, Quaderni di Moniter (03/11)
[3] Dalberg Advisors, 2019, Fermiamo l’inquinamento da Plastica: come i Paesi del Mediterraneo possono salvare il proprio mare. WWF
[4] Mare Vivo, 2019. Le microplastiche: microfonti…di macroinquinanti!
[5] Gasperi J., Wright S., Dris R., Collard F., Mandin C., Guerrouache M., Langlois V., Kelly F., Tassin B., Microplastics in air: Are we breathing it in? Current Opinion in Environmental Science & Health 2018 (1), 1-5
[6] WHO, 2018. Air Pollution-The Silent Killer. Geneva
[7] Stefania Russo, 2018. Inquinamento atmosferico: quali effetti sulla salute? ANTER
[8] Kathryn Miller, David Santillo & Paul Johnston, 2016. Plastics in Seafood – full technical review of the occurrence, fate and effects of microplastics in fish and shellfish, GreenPeace.
[9] Mariarosaria Di Feola, 2019. Interferenti endocrini: impariamo a conviverci. UPPA
[10] Levine H1,2, Jørgensen N3, Martino-Andrade A2,4, Mendiola J5, Weksler-Derri D6, Mindlis I7, Pinotti R8, Swan SH7, 2017. Temporal trends in sperm count: a systematic review and meta-regression analysis Hum Reprod Update. 2017 Nov 1;23(6):646-659. doi: 10.1093/humupd/dmx022
Si vedano anche:
OMS, 2016. WHO’s Urban Ambient Air Pollution database. World Health Organization
European Environment Agency, 2019. Air quality in Europe — 2019 report
Ettore Mautone, 2019. Fertilità e inquinamento. La proteina p53 degli spermatozoi nuovo biomarcatore di danno al Dna. Quotidianosanità
Immagine di copertina: Angela Compagone (https://angelacompagnone.com/series#/advertisingseapollution/)
Shangai, by Holger Link – @photoholgic