Probabilmente molti di voi avranno già saputo che i dati preliminari del famoso Twins Study sono stati resi pubblici. Dopo avervi descritto brevemente l’esperimento e aver provato a spiegarne i risultati e l’importanza, ne trarrò qualche riflessione generale assolutamente personale che spero vi interessi e stimoli.
Partiamo dai fatti: Scott e Mark Kelly sono fratelli gemelli ed entrambi sono astronauti della NASA. Hanno deciso di partecipare a un esperimento – chiamato non a caso “Twins Study” – che ha previsto che mentre uno dei due fratelli rimaneva a Terra l’altro si dilettava a girovagare per lo spazio. In totale, mentre Scott ha passato ben 520 giorni nello spazio (di cui gli ultimi 340 consecutivi!), Mark ci è rimasto per soli 54 giorni complessivi. Entrambi i gemelli si sono sottoposti a specifici esami medici prima dell’inizio della missione, a marzo 2015, e hanno ripetuto gli stessi esami al ritorno di Scott, cioè a marzo 2016.
Il genoma dei due fratelli è stato attentamente analizzato ed è venuto fuori che Scott ha accumulato una serie di mutazioni extra rispetto Mark, oltre ad aver subito anche altri tipi di modifiche fisiologiche, come quelle a carico della flora intestinale.
Il termine mutazione in questo caso non va però caricato di una accezione puramente negativa. Queste modifiche hanno riguardato infatti non la sequenza dei nucleotidi, ma il modo in cui i geni vengono espressi. Si tratta cioè di modifiche epigenetiche.
BOX DI APPROFONDIMENTO: L’EPIGENETICALa prima cosa da dire è che il DNA non è immutabile. Spesso parlando del DNA si fa l’esempio di un libro che contiene tutte le istruzioni che servono alle nostre cellule per organizzarsi, crescere, comunicare tra di loro, svolgere le loro specifiche funzioni e così via, come se il nostro codice genetico fosse un fardello che ci è stato attribuito al momento della nostra nascita, che ci dobbiamo portare dietro per tutta la nostra vita. Allo stesso tempo la parola “mutazione genetica” ci fa istantaneamente pensare a qualcosa di terribile e oscuro. In realtà entrambi i concetti andrebbero rivisti, o quantomeno ampliati. Intendiamoci: la sequenza delle basi azotate, le quattro “lettere” che costituiscono il codice genetico, cambia abbastanza difficilmente. Quello che cambia è invece il messaggio che queste lettere trasmettono. Partiamo con una considerazione semplice: se tutte le nostre cellule hanno lo stesso identico DNA, come è possibile che una cellula del fegato sia così diversa da una cellula nervosa o da un globulo bianco? La risposta è abbastanza semplice: anche se il DNA è lo stesso, non tutte le cellule lo leggono allo stesso modo. Il DNA contiene infatti molte informazioni, che devono però poi essere sfruttate per la sintesi delle proteine necessarie al corretto funzionamento del nostro organismo. Di tutte queste informazioni presenti, la cellula deve quindi fare una accurata selezione e determinare quali proteine le servono e quali no. Non solo, questa informazione deve poi essere trasmessa a ogni altra cellula figlia, in modo che anche quella sappia già quali proteine sono necessarie per la sua sopravvivenza e per svolgere le sue funzioni e quali invece non la riguardano. Questa selezione avviene proprio modificando il DNA attraverso una serie di reazioni chimiche, come la metilazione, che hanno il compito di accendere e spegnere ogni singolo gene. Un gene è una sequenza di DNA, composta da una successione anche molto lunga di basi azotate, che contiene tutte le informazioni necessarie per sintetizzare una specifica proteina. Se torniamo all’esempio del libro di istruzioni, possiamo immaginare le basi azotate come se fossero le parole e il gene come se fosse un paragrafo che contiene tutte le istruzioni per la sintesi di una tra le proteine che ci servono per vivere. Se immaginiamo che questo libro sia in mano a un gran numero di operai, allora possiamo immaginare che ogni operaio andrà poi a “sottolineare” solo i paragrafi che riguardano il compito specifico che è stato assegnato a lui. Queste modifiche, che sono ereditarie e che non portano ad una modifica del genoma, ma solo ad una sua differente espressione, sono dette modifiche epigenetiche. |
L’epigenetica nasce nel 1942 con Conrad Waddington e si occupa proprio del rapporto tra il genotipo – cioè l’insieme di tutti i geni che costituiscono il nostro corredo genetico – e il fenotipo, cioè l’insieme di tutte le caratteristiche osservabili di un organismo. L’importanza delle modifiche epigenetiche non può essere sottolineata abbastanza: l’ambiente esterno, lo stress, le emozioni forti, l’alimentazione, sono tutti fattori che portano al silenziamento o all’attivazione di certi geni. Per questo anche due gemelli omozigoti, cioè con lo stesso corredo genetico alla nascita, durante la vita possono avere fenotipi molto diversi: uno può essere più alto e l’altro più basso, uno ingrassare più velocemente e l’altro avere più lentamente, uno può essere di carnagione più scura e l’altro più chiara.
In questo caso è evidente che i due gemelli hanno vissuto due esperienze radicalmente diverse. La vita nello spazio è molto diversa da quella a Terra e la microgravità ha degli effetti fisiologici, decisamente deleteri, molto marcati. Tra questi, si annoverano ad esempio la riduzione di densità ossea, il peggioramento della vista e altri effetti negativi sul sistema circolatorio e su quello immunitario.
Quando Scott è quindi ritornato sulla Terra era prevedibile che ci sarebbero state anche delle modifiche importanti a livello cellulare. Tra quelle che meritano più attenzione sono l’accorciamento dei telomeri e la differenza nella metilazione del DNA. Vi rimando agli articoli nei riferimenti per una descrizione più dettagliata dei risultati.
BOX DI APPROFONDIMENTO: I TELOMERII telomeri sono la parte terminale dei cromosomi e sono composti da una sequenza di basi che si ripete molte volte. La loro funzione non è ancora chiarita al 100%, ma svolgono sicuramente un ruolo importante nel processo di invecchiamento cellulare, o senescenza. Ad ogni replicazione cellulare i telomeri si accorciano leggermente, agendo quindi come un segnale che permette alla cellula di iniziare l’apoptosi, cioè la morte cellulare programmata, quando è ormai troppo vecchia. La metilazione del DNA è invece uno dei processi epigenetici coinvolti nell’espressione genica e si tratta di una modifica di un nucleotide tramite l’addizione di un gruppo metile (-CH3). |
Questa nuova ricerca, come in generale tutta la ricerca sulla medicina spaziale, è fondamentale per il prosieguo dell’esplorazione dell’universo. Specialmente in vista di una futura spedizione su Marte o comunque per qualsiasi missione che dovesse richiedere una permanenza umana prolungata in microgravità, sarà infatti fondamentale capire come salvaguardare la salute degli astronauti. Questo tipo di investigazione presenta però alcune criticità, legate al basso numero di soggetti coinvolti e alla loro riconoscibilità.
Gli studi scientifici in ambito medico si basano tutti su alcuni principi considerati fondamentali per ottenere dei dati affidabili e riproducibili, quali la garanzia dell’anonimato per chi partecipa allo studio, un numero di pazienti sufficiente per ottenere un dato che sia significativo dal punto di vista statistico e la presenza di un gruppo di controllo che serva da riferimento.
La ricerca spaziale non può quasi mai soddisfare i primi due punti e spesso nemmeno il terzo.
Il problema della riconoscibilità dei pazienti è un ostacolo etico insormontabile. Immaginiamo che a seguito dell’esperimento dei gemelli, Scott sia diventato impotente, incontinente, che abbia iniziato a soffrire di depressione o di un altro disturbo mentale e che non sia felice dell’idea che tutto il mondo sia reso edotto di questi suoi problemi. Sebbene infatti sia un astronauta, è prima di tutto una persona e come tutte le persone ha diritto alla riservatezza dei suoi dati sanitari, specialmente nel momento in cui questi dati dovessero davvero diventare sensibili o imbarazzanti.
Cosa bisognerebbe fare con questi dati? Bisognerebbe pubblicarli senza il suo consenso in modo da far progredire la ricerca e salvaguardare la salute degli altri astronauti? Bisognerebbe pubblicare solo una parte dei dati, quella che lui acconsente a rendere pubblica, rendendo però così tutto lo studio notevolmente indebolito e di dubbia valenza scientifica? O bisognerebbe permettere che solo pochi scienziati della NASA abbiano accesso a questi dati e lasciare che il resto della comunità scientifica si fidi dei loro risultati, senza poter esercitare il normale controllo tra pari che renda così solida la scienza?

Risolvere questo problema non è per niente facile, ed al momento l’unica strada percorribile è quella di lasciar scegliere a Scott Kelly quali dati rendere pubblici. Questo tuttavia non risolve nessuno dei due problemi, né quello etico né quello scientifico. Dal punto di vista etico, Scott non è infatti nelle condizioni di poter fare una scelta libera e indipendente. Questo perché anche se formalmente può decidere quali dati non divulgare, è comunque sottoposto a una enorme pressione psicologica ed è al centro di una pressante attenzione mediatica. La scelta di non pubblicare alcuni dati sarebbe sicuramente oggetto di speculazioni indecenti da parte dei media e, cosa forse ancora più importante per uno scienziato come lui, sarebbe un danno allo studio. È inutile far finta che tutta questa pressione non influenzerà la sua scelta: ma è corretto che sia davvero così? È etico mettere una persona in questa posizione, sebbene sia stato lui stesso a spingere per partecipare a questo esperimento?
Dal punto di vista scientifico, lo studio è debole già di per sé per i motivi che approfondiremo nel prossimo paragrafo. A questo si aggiunge che la possibilità che non tutti i dati vengano resi noti impedisce qualsiasi analisi complessiva dell’esperimento e tutte le ipotesi dovranno basarsi su dati parziali e incompleti.
Questo problema riguarda non solo questo caso, ma tutti i dati sulla salute degli astronauti, che sono strettamente confidenziali.
Accanto quindi a questi problemi di carattere etico, rimangono anche molti dubbi sulla valenza scientifica di questi dati. Immaginiamo che i gemelli Kelly rinuncino completamente alla loro privacy ed accettino che tutto il loro genoma e i loro problemi di salute vengano resi noti a tutto il mondo: che valore ha uno studio condotto su sole due persone?
In medicina questo sarebbe chiamato un “Case report” o “Case study”. I case studies sono, per essere molto approssimativi, quelli che capitano quotidianamente al Dr. House. Si tratta cioè di singoli pazienti che riportano dei sintomi inusuali per una malattia, che hanno riportata degli effetti collaterali sconosciuti in seguito alla somministrazione di un farmaco, la cui condizione particolare ha richiesto una terapia non convenzionale e così via. Si tratta cioè di singoli casi interessanti che il medico vuole siano noti alla comunità scientifica. Se da una parte sono importanti perché possono mettere in luce dei problemi inaspettati o ispirare altri medici nella cura di altri pazienti, dall’altra sono spesso inaffidabili perché riferiti appunto ad una sola persona. Questo vuol dire che non è possibile escludere che si sia trattato solo di un caso fortuito o legato ad una particolare predisposizione di quel singolo paziente. Per questo motivo i case study sono normalmente considerati il livello più basso di prova scientifica: meglio di nulla, possono essere uno spunto per ulteriori ricerche, ma insufficienti per trarre qualsiasi conclusione.
Uno studio clinico davvero scientifico è invece il Randomized controlled trial (studio controllato randomizzato). In questo tipo di studio, un ampio bacino di pazienti viene suddiviso in due gruppi di controllo. Un gruppo riceve il trattamento sperimentale, mentre l’altro riceve un placebo. I pazienti vengono suddivisi nei due gruppi in maniera random, cioè casuale, e le loro condizioni vengono monitorate attentamente per tutta la durata dello studio. Alla fine del trial i risultati vengono elaborati, ne vengono tratte delle statistiche anonime e queste vengono poi pubblicate. Un elemento fondamentale in questo tipo di ricerca è il doppio cieco: né il medico né il paziente sanno a chi va il placebo e a chi il trattamento vero. Il problema di base di questo approccio è che, sebbene sia quello scientificamente più solido, non è sempre applicabile. Anche se però il doppio cieco no è sempre applicabile, lo studio statistico lo è (tranne nel caso di malattie rarissime).
La gerarchia delle evidenze secondo Greenhalgh
|
In questo caso invece ci ritroviamo davanti ad uno studio condotto con un solo “paziente” e un solo controllo. Come è possibile eliminare il sospetto che i risultati trovati non siano dovuti a una variazione fortuita? Come possiamo verificare se queste variazioni sono dovute davvero alla permanenza nello spazio o se non sono piuttosto un risultato dell’aver vissuto per un anno in una condizione di fortissimo stress? Come possiamo essere sicuri che altre persone non avrebbero subito effetti più o meno pronunciati?
La risposta a queste domande è purtroppo difficile da trovare e questi problemi sembrano ben lontani dall’essere risolti, a causa dell’elevato costo delle missioni e della carenza cronica di fondi delle varie agenzie spaziali. Questo non significa ovviamente che i dati ottenuti non siano comunque fondamentali, ma vanno inquadrati nel loro contesto e trattati con cautela, fino a quando almeno ulteriori esperimenti non permetteranno di renderli decisamente più solidi.
Riferimenti
Scott e Mark, i due astronauti gemelli, non sono più identici (Wired)